C’è il rischio che ogni evento passi per una semplice “festa” e che venga rubricato come occasione per un concerto o per una manifestazione in cui si parla d’altro. O peggio, che qualcuno si “appropri” di una celebrazione.

Nel nostro Paese il PRIMO MAGGIO ha un doppio significato. C’è quello originario che risale al 1866, quando fu approvata a Chicago, in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, legge che entrò in vigore soltanto l’anno dopo, il 1º maggio 1867, giorno nel quale fu organizzata un’importante manifestazione, con almeno diecimila partecipanti.

Tant’è che, al Congresso Internazionale di Parigi del 1889, che diede il via alla Seconda Internazionale, il giorno 1º maggio fu dichiarato ufficialmente come la “Festa Internazionale dei Lavoratori”.

In Italia le “otto ore lavorative” vengono introdotte nel 1923, ma in quel periodo non si gradivano le celebrazioni sui diritti dei lavoratori, tanto che si provò a fare coincidere la “festa del lavoro” con il “natale di Roma” che cade il 21 aprile. E nel 1945 si ritornò a festeggiare il 1° maggio.

Ma è qualche anno dopo che si determina la data, per noi italiani (e non solo) più memorabile: Il 1º maggio 1947, a Portella della Ginestra (PA), i banditi al seguito di Salvatore Giuliano spararono su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone quattordici e ferendone una cinquantina.

Le origini della strage hanno diverse letture riguardo ai mandanti. Ma rimane il fatto che il “bersaglio” erano i “lavoratori” nel giorno della loro manifestazione sul tema dei loro diritti.

Non erano riuniti in concerto. Non erano rappresentati da ricchi sindacalisti con pensioni d’oro. Non votavano per partiti legati a banche di affari. E quando chiedevano democrazia non si riferivano alla omologazione rispetto ai piani finanziari europei.

In poche parole, erano sinceri e in buona fede.

Se oggi, gli stessi lavoratori scendessero in piazza, ci sarebbe qualcuno che li ostacolerebbe, magari tra quelli che vestono i panni e i colori della democrazia.

Perchè, nessuno me ne voglia, abbiamo fatto tanti progressi e non si vedono persone che girano con la “lupara” e la “coppola in testa”. Ma non possiamo dire che il “lavoro”, intendendolo nel senso della valorizzazione del proprio impegno, sia riconosciuto a tutti.

Basta vedere quanti giovani preparati e in buona fede sono costretti a vivere delle briciole di un sistema ingordo che assorbe tutto e lascia pochi spazi e solo in cambio di qualcosa.

Se vogliamo celebrare la “festa del lavoro”, facciamolo riconoscendo rispetto verso “il lavoro” (che non è solo occupazione, ma anche impegno e responsabilità) e i “lavoratori”, soprattutto quelli che, avendo bisogno di vivere in modo dignitoso sono costretti ad accettare qualsiasi lavoro e a qualsiasi condizione.

La nostra società, infatti, pur se “evoluta”, presenta ambiti vasti in cui non tutti i lavoratori sono tutelati, nè i loro diritti sono riconosciuti, nè i compensi sono adeguati.

E la questione riguarda soprattutto i più giovani o quelli che hanno perduto un lavoro, ma il tema (non me ne vogliano gli amici sindacalisti) non è al centro delle priorità delle organizzazioni sindacali che sono sempre più delle associazioni corporative di specifiche categorie, sempre più potenti e disinteressate sui temi delle condizioni di lavoro degli altri.

Ebbene, un tempo, nel 1947, per combattere la folla dei lavoratori precari era necessario ingaggiare una banda e usare le armi. Oggi abbiamo imparato, purtroppo, che può fare più male l’indifferenza. Basta non interessarsi dei problemi altrui e condannare ogni lavoratore precario alla propria solitudine.

Se vogliamo festeggiare il primo maggio, facciamolo, ma (almeno oggi) pensiamo ai problemi profondi del “mondo del lavoro”, che non è il buono pasto per chi è in smart working o il diritto a mantenere le ferie pregresse o quello alla disconnessione, ma il riconoscimento del “diritto al lavoro” per chi non riesce a trovarlo e a condizioni di dignità.