Il senso delle informazioni riguardanti i vari fattori economici non va mai preso passivamente per buono, poiché, pur nella sua presunta oggettività, va sempre ben interpretato, va contestualizzato ed opportunamente inquadrato in quella che è la situazione generale, soprattutto se ci si intende riferire ad un Paese complesso come il nostro.

Nel caso specifico, l’ISTAT ci segnala che la crescita del Paese è pari a zero: non ci stupisce, lo sapevamo. Era prevedibile che gli osservatori economici internazionali, che da tempo lanciano significativi e conformi segnali di allarme, non si sbagliassero. 

Per fortuna, vanno un po’ meglio le cifre riguardanti l’occupazione, che fa registrare ancora nuovi record, anche grazie alle strumentali interpretazioni entusiastiche della politica, che fa il suo mestiere esaltando i dati di cui dispone, nel tentativo di indorarci una pillola sin troppo amara.

Nessun governo ammetterebbe mai che i provvedimenti che ha adottato non si sono rivelati all’altezza, né il precedente e neanche quello in carica lo hanno fatto, né lo faranno, è sin troppo ovvio: dunque nessuno stupore neanche in questo caso. 

Tuttavia non è tutto oro ciò che brilla. Infatti, bisogna leggere le statistiche andando oltre i riscontri asettici che ci vengono forniti, perché il vero problema, che viene costantemente e dolosamente occultato, riguarda la qualità e la quantità di questo lavoro che sembrerebbe aumentare. 

Infondo, basta guardare bene i numeri per capire che, spesso, si tratta di occupazioni precarie, saltuarie e mal retribuite, visto che il monte ore complessivo che viene oggettivamente registrato è sotto il livello pre-crisi, come lo è quello dei salari. 

Insomma, se il monte ore non cresce, anzi diminuisce, e non cresce neanche l’ammontare complessivo dei salari percepiti, da dove viene fuori la nuova occupazione reale? Probabilmente da una diversa distribuzione legata a forme contrattuali solo apparentemente più vantaggiose, ma in realtà meno, o peggio, retribuite.

Il vero disastro, però, riguarda i giovani: in Italia quelli disoccupati sono il 28,1%, mentre la media in Europa è pari al 15,4. I dati diventano ancora più preoccupanti al Sud ed in Sicilia, con 107 mila disoccupati in più ma dove, ogni anno, mentre la disoccupazione continua a crescere, cresce anche il numero di emigrati che non ritorneranno più indietro: oltre 20.000 l’anno, un intero paese di medie dimensioni. 

Insomma, c’è poco da stare allegri e da festeggiare, c’è poco da brindare e da mostrarsi soddisfatti nei video dei vari social. Se non riparte la produzione, gli investimenti pubblici e la crescita, per il Mezzogiorno, non ci sarà alcun futuro, se non quello targato “elemosine di stato”: troppo poco!

Per la nostra regione questa condizione, già difficile, risulta particolarmente paradossale, perché fa a pugni con l’enorme quantità di risorse di cui essa dispone, ma che non riesce ad utilizzare per una endemica carenza di infrastrutture, soprattutto nell’ambito dei trasporti, della logistica, dell’industria manifatturiera o di trasformazione.

In questo quadro piuttosto desolante, al di là degli entusiastici proclami propagandistici marcati dai vari governi, appare interessante la proposta di quanti vorrebbero pervenire ad una forma di perequazione incentrata sulla creazione di un fondo alimentato dalle entrate fiscali prodotte in Sicilia. 

Al momento si tratta di una semplice ipotesi, ma i suoi promotori pare abbiano intenzione di andare avanti e presentarla in Parlamento, nella forma del disegno di legge di iniziativa popolare. Se sono rose fioriranno!

Tuttavia nessun fiore può germogliare se non dispone, almeno, di terra e di acqua. Nel caso specifico, nessuna proposta può diventare legge se non c’è attenzione, se non c’è partecipazione, se non c’è passione civile da parte di chi, i cittadini, dovrebbero essere i fruitori finali di qualsiasi intervento mirante a migliorare la loro qualità della vita.

Insomma, nessuno sarà mai disponibile a fare, per noi, ciò che noi stessi non riusciamo a fare o, peggio, non abbiamo voglia di fare.