Vi sembra rispettoso del dettato costituzionale il fatto che al 34,3% della popolazione, quella che risiede al Sud, spetti una spesa pubblica pari al solo 28,3% del totale, mentre al 65,7% della popolazione, quella che risiede al centro-nord, spetti una spesa pubblica pari a ben il 71,7% del totale? Direi che non è assolutamente giusto, anzi, è del tutto incostituzionale, poiché il raffronto di queste cifre costituisce la dimostrazione palese del tradimento del patto sul quale si fondò l’unità nazionale .

Alla faccia degli insulti rivoltici da qualche giornalista “alla carta” e da un manipolo di politici ignoranti e servi della finanza speculativa, infatti, i miliardi che ogni anno il Nord sottrae al Sud sono ben 61 e sono il frutto del cosiddetto “sistema della spesa storica” che fa diventare sempre più ricche le regioni già ricche e sempre più povere le regioni notoriamente povere. 

I fatti, però, bisogna saperli raccontare con un po’ di onestà intellettuale, quella che purtroppo manca ad una certa informazione così come le cifre ufficiali bisogna saperle leggere. Ad esempio, avete notizia del fatto che a provocare il deficit della sanità nazionale, quello che paghiamo anche noi siciliani con le nostre tasse, sono tre regioni, non certo del Sud, vale a dire Piemonte, Liguria e Toscana? 

Siete a conoscenza del fatto che, sempre per fare qualche esempio, il Veneto fa pagare allo Stato, non ai veneti, lo stipendio di 16 mila dipendenti in più, non medici, di quanto non faccia la Campania? Sapete che la stessa cosa accade con gli operai forestali, che in Sicilia paghiamo noi siciliani mentre nelle regioni a statuto ordinario del Nord li paga lo Stato o gli altri enti territoriali?

Per comprendere quale sia la dimensione di quest’ultimo problema, vi è noto che, secondo i dati della Corte dei Conti, circa 8.000 dipendenti su circa 14.000 della Regione Siciliana svolgono funzioni che altrove paga lo Stato o gli enti nazionali e da noi gravano sul bilancio interno?

Sempre per tornare nel campo della sanità, pochi sanno che, quasi a parità di abitanti, l’Emilia Romagna riceve circa 3 miliardi in più della Puglia e che il primato dei dipendenti pubblici non è detenuto dalla Sicilia, come qualche conduttore televisivo, prezzolato quanto ignorante, continua a sostenere, ma dalle regioni del Nordest, cioè Veneto, Emilia Romagna, Trentino e Friuli Venezia Giulia, con un rapporto di 5 dipendenti pubblici ogni 100 abitanti, contro i 4,4 del Mezzogiorno.

Sapete che le cosiddette misure di stabilizzazione della finanza pubblica, più volte assunte dal governo, sono state adottate tagliando 22,3 miliardi dei fondi destinati al Mezzogiorno per lo sviluppo e la coesione?

Un ultimo dato, giusto per smentire un altro dei tanti luoghi comuni che riguardano il “virtuoso Nord”: quando sentite dire che il Mezzogiorno non sa spendere, sappiate che non vi dicono tutta la verità, dato che confondono le cifre previste dai bilanci di competenza, circa 7 miliardi, con quelle realmente disponibili nella cassa, circa 1,7 miliardi. 

La situazione descritta con le cifre ufficiali citate non è casuale, è figlia della incapacità della classe politica siciliana e meridionale, a qualunque partito appartenga o sia appartenuta, da sempre del tutto prigioniera di un sistema fondato su forze politiche nazionali, tutte, interamente possedute ed ampiamente usate dalla finanza speculativa del Nord.

Per uscire da questo schema che ci ha soffocato, dall’unità d’Italia ai nostri giorni, impedendoci un livello di sviluppo adeguato a quelle che sono le nostre potenzialità, è necessario costruire non solo una nuova classe dirigente, fatta di persone oneste, competenti, coerenti e coraggiose, ma anche un modello di rappresentanza politica fortemente ancorata al territorio attraverso partiti territoriali e leggi elettorali conseguenti. 

C’è però anche altro da fare: sostenere un modello di sviluppo, legato alle risorse Siciliane e meridionali, che sia il meno possibile condizionato dall’andamento globale di un’economia speculativa aggressiva e globale. Penso ad interventi che leghino la perequazione infrastrutturale alla crescita di un’economia reale legata alle disponibilità tipiche del territorio, non alle oscillazioni finanziarie internazionali. 

Per convincere gli assertori di uno sviluppo della Sicilia quasi esclusivamente legato al turismo, basta ricordare ed evitare quanto sta accadendo con il coronavirus, guardando con impegno e competenza a settori come l’agricoltura, soprattutto se specializzata, all’artigianato ed alla piccola e media impresa di produzione, di distribuzione e di servizi: non è difficile, basta volerlo!