A Catania si conzunu tuttu cosi. Si conza ‘u lettu, si conza ‘a tavula, si conza ‘u pani, si conza ‘a pasta, c’è cu conza ppi ghiri a piscari, si conzunu ‘i capiddi ‘nta parrucchiera, si conza ‘a nsalata, si conzunu alivi e si conzunu macari zitaggi, matrimoni, e cumparaggi sacri e di cumminienza.
A Catania ed in molte altre parti della Sicilia il termine cunzari si utilizza in parecchie circostanze, un po’ come accade per il verbo fare, che lo si piazza ovunque.
Il verbo fare è un verbo italiano, dunque risponde alle categorizzazioni grammaticali della lingua italiana.
Si tratta di un verbo irregolare della prima coniugazione e significa compiere una determinata azione o attività, eseguire, realizzare: un oggetto, un passo, un gesto, una rapina, ecc. Sì, sì, facesse…facesse…!
Se lo si accoppia con altri termini assume vari significati, come nel caso di fare la volontà divina, avere a che fare, fare caso, ecc.
Ppi cunzari è ‘a stissa cosa picchi pò significari apparecchiare, condire, preparare, creare le condizioni per acconciare, preparare gli altarini votivi nel corso delle funzioni religiose, organizzare gruppi, ecc.
La stessa cosa può accadere con l’inverso di cunzari, cioè scunzari, che assume il significato scaturente dal contesto, che non è detto che sia sufficientemente chiaro.
Insomma, siamo alle solite. Di fronte ad un termine così complesso, il più volte citato carabiniere di Belluno o di Pordenone, chiamato a sbobinare una intercettazione telefonica, le cose si mettono davvero male.
Immaginate cosa potrebbe venire fuori dalla seguente frase: “cunzaru ‘na bella gita ppi ghiri a scunzari zitaggiu”.
Il nostro agente potrebbe dare un’interpretazione non perfettamente chiara dei fatti e cioè: “hanno condito una bella gita per andare a scondire un fidanzamento”.
Certo, non sembra che si pervenga ad un’affermazione di senso compiuto, tuttavia simili errori si fanno e creano parecchi guai a chi ci incappa.
A proposito dell’inverso di cunzari, cioè scunzari, non bisogna dimenticare un particolare tipo di personaggio che compare in diverse scene siciliane di vita vissuta: ‘u sconza iocu, vale a dire il guastafeste, l’impiccione, il traffichino.
Anche in questo caso il nostro carabiniere settentrionale potrebbe trovarsi in grosse difficoltà e, a sua volta, a causa di una errata interpretazione della conversazione da sbobinare, potrebbe mettere nei guai qualche innocente.
Di simili situazioni sono pieni i fascicoli giudiziari, dunque, se non si vuole passare qualche brutto quarto d’ora, è sempre bene avere a disposizione un buon certificatore dialettale, pronto a fornire la versione corretta del discorso.
E per ora mi femmu cà picchì sugnu stancu, ma stati tranquilli ca quacche autra storia va cuntu, datimi tempu e ‘n’addivittemu.
