Il rapporto esistente tra i catanesi e i putiari, vale a dire i commercianti che gestiscono esercizi commerciali, soprattutto in alcuni settori alimentari, non è mai stato sempre tranquillo.
Il fenomeno oggi non si nota molto perché putii ce ne sono parecchie di meno di un tempo, mentre dilagano sempre di più i super/iper mercati, più o meno hard, per non parlare dei cosiddetti “centri commerciali”, che a Catania sono davvero tanti.
Un tempo c’era ‘a putia do’ vinu, la bettola, c’era ‘a putia do’ latti, la latteria, c’era ‘a putia di l’ogghiu, vale a dire il negozio specializzato nella vendita di olio da tavola, di cui ormai si sono perse le tracce, c’era ‘a putia do’ fummaggiu, ‘a putia de’ generi alimentari, ecc.
Sin qui tutto normale, la stessa cosa accadeva anche altrove: ogni esercizio aveva una sua specializzazione, anche se il termine putia era riservato soprattutto ad alcune tipologie merceologiche.
Abbiamo detto, però, che i rapporti tra u’ pitiaru e u’ catanisi non sempre era sereno, per i motivi che vedremo a breve.
In ogni caso, la circostanza aveva aspetti positivi ed aspetti negativi. Quelli positivi risiedevano nel rispetto reciproco e nelle reciproca fiducia, quelli negativi, invece, riguardavano certe interessate furbizie che, se scoperte dalla controparte, potevano dare adito ad una serie di reazioni che andavano dal cambio di putia, a qualche scambio vivace di opinioni a suon di maliparoli.
Tempo addietro assistetti ad una lite che si svolgeva davanti ad una putia nella quale si vendeva vino, olio, latte e latticini.
Casalottu è stu vinu, diceva un cliente, e macari stu latti è Casalottu. Ma cosa voleva dire l’avventore? Cosa si celava dietro quella frase?
Confesso che per comprenderlo ci impiegai un po’ di tempo. Fu mia nonna che me ne spiegò il significato.
Casalotto era l’azienda che gestiva i pozzi e la rete idrica catanese prima della sua municipalizzazione. In tal senso, sostenere che vino e latte fossero Casalotto, non significava affatto che fossero distribuiti da quella azienda, ma che erano stati “allungati” con dell’acqua, con una evidente frode alimentare.
Qualcosa di simile avveniva anche nelle putie che vendevano salumi e formaggi. In quel caso il peso veniva artatamente aumentato con l’uso di carta piuttosto pesante.
In questo caso la frase che si sentiva pronunziare ai clienti era: m’arraccumannu oggi vogghiu mangiari pani co’ fummaggiu o c’a muttatella. U’ pani c’a catta strazzu e c’a catta oleata m’arresta supra ‘a ucca l’amma.
L’ironia catanese è nota a tutti e diventa subito liscia quando assume la funzione di interlocuzione nei confronti di chi cerca di fargliela sotto il naso.
Erano altri tempi, era un’altra Catania, era persino un’altra liscia, cettu, non è ca sti riscussi oggi si ponu fari c’a cassèra do supermeccatu? Chi si ci po’ diri a dda puuredda? Chi ni sapi idda si u’ vinu e ‘u latti sunu Casalotto o su a catta pisa ch’assai do’ fummaggiu? Oggi si ci po’ diri sulu: stu vinu mi pari trasparenti, non havi culuri e non sapi di nenti!
