Dopo la crisi della cosiddetta “Prima repubblica” e la relativa distruzione, per mano giudiziaria, della democrazia post-bellica, che si esprimeva attraverso i partiti, in Italia è cambiato tutto o quasi.

Le assemblee elettive sono state ridimensionate, sia nei poteri, sia nella composizione; le classi dirigenti, delle varie compagini politiche, sono state scelte sempre meno dagli elettori e sempre più dai leader; il patrimonio economico personale ha rappresentato, sempre di più, una discriminante, rispetto alla competenza all’intelligenza e al merito; gli eletti hanno risposto, sempre di meno, ai cittadini È sempre di più ai loro “mandanti”.

Tutto questo, e tanto altro, non è certamente casuale: nessuno ci crede! 

Non è casuale che qualcuno voglia che i parlamentari possano essere scelti sulla base dei like sui profili di Facebook o sulla piattaforma Rousseau,  oppure attraverso la loro telegenicità, ovvero grazie all’amicizia con l’amica del capo, piuttosto che attraverso un consenso che vada da persona e persona.   

Non è casuale che qualsiasi riforma elettorale che venga predisposta, persino al livello degli Enti Locali, sia sempre fondata sulla riduzione dei rappresentanti dei cittadini e la concentrazione dei poteri nelle mani e nelle menti del minor numero di persone possibile, spacciando il tutto come un’esigenza di funzionalità.

Non è casuale neanche che, proprio su questo argomento, i leader siano sempre d’accordo e che le discriminanti sui loro programmi siano altre. 

Il fatto è che, prima della drammatica distruzione della “Prima repubblica”, non certo per via democratica, né attraverso provvedimenti selettivi, nessuno si è preoccupato di “salvare il bambino”, prima di buttar via “l’acqua sporca”, né di costruire un “accampamento” nel quale ospitare i reduci di quella fase storica, nelle more della costruzione di una eventuale, cosiddetta, “Seconda repubblica”.

Tutti morti, dunque? No! Sono sopravvissuti gli alti burocrati, che hanno posto la loro competenza a disposizione di se stessi o dei più forti, non certo dello Stato, e i magistrati, che inseguono il loro progetto di “governo dei giusti”, nel presupposto che siano essi a comporlo.

Anche questo schema, però, oggi sembra essere stato superato, perché tra la burocrazia e nella magistratura cominciano a scoppiare gli scandali, come accadde nel 1992, e il famoso “tintinnar di manette”, che caratterizzò “Tangentopoli”, adesso si ode anche in quei settori. 

Dunque cosa regge? 

Reggono due modelli, in atto, strutturati solo in parte e anche male: il modello dell’economia reale, che ha bisogno di lavoro, di competenza, di certezza del diritto, di sicurezza, di spesa e di solidarietà; e il modello dell’economia speculativa, che ha bisogno di disoccupazione, di paura, di incertezza, di invidia sociale, di ignoranza.

Del modello dell’economia reale fa parte la gran parte di noi: lavoratori, pensionati, studenti, professionisti, piccoli e medi imprenditori, ecc. Siamo in tanti, ma abbiamo poche risorse e tanta diffidenza.

Del modello dell’economia speculativa fanno parte le multinazionali, l’alta finanza, il mondo del credito e delle assicurazioni, i cartelli criminali. Sono in pochi, ma dispongono di molte risorse e di una grande capacità aggregativa e acquisitiva.

Gli uomini e le donne dell’economia reale hanno bisogno di una previdenza e di una sanità che funzionino, di occupazione e di spesa, che determini ulteriore occupazione;  le persone giuridiche dell’economia speculativa hanno bisogno di preoccupazione, di stagnazione, di risparmi investiti polizze assicurative previdenziali e sanitarie, di disservizi, di incertezza.

In democrazia, “purtroppo o per fortuna”, si vota per testa e questo non va assolutamente bene a quanti vorrebbero che si votasse per censo o, per meglio dire, per capitale e che vorrebbero che i risparmi restassero sui conti correnti, piuttosto che immessi sul mercato: non almeno in quello dei beni di consumo.

La dittatura, modello che i signori dell’economia speculativa preferirebbero in assoluto, perché ridurrebbe i “tempi morti” del dialogo, è antipatica, é antistorica, anzi, potrebbe scatenare persino reazioni incontrollabili, dagli esiti non sempre prevedibili, quindi è meglio evitarla, se non altro ufficialmente!

La fase che stiamo attraversando, pertanto, è una fase intermedia, in cui pochi leader determinano un numero sempre minore, ma sempre più condizionato, di “rappresentanti dei cittadini”, nel tentativo di ridurli ancora di più, per non avere il “fastidioso problema” di doverli convincere.