Così come accade con ogni emanazione del Governo attuale, anche il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” è stato salutato da tutti con grande entusiasmo, già prima di leggerlo. Ma poi, perché dovrebbero leggerlo, visto che ogni decisione viene presa nel chiuso dei palazzi, ma nessuno se ne lamenta più?

Il patto (in basso il link al documento, per chi fosse interessato a leggerlo), dal nome altisonante, esordisce affermando che “il nostro Paese riparte dalle donne e dagli uomini della Pubblica Amministrazione” e invoca la ricerca delle “migliori competenze professionali” e delle “qualità umane”. 

Potrebbero apparire come semplici affermazioni generiche e superficiali, ma si tratta, invece di una visione del “sistema” che tradisce la completa “mancata conoscenza” dei veri problemi o forse l’intenzione di non volere affrontare i nodi cruciali.

Nel documento si parla di “capitale umano”, usando un’espressione (mi si consenta) volgare, che associa le persone alle “cose”, nell’intento di trasformare tutto il Paese in un grande “mercato”.

Non si risparmia il tema dell’innovazione, “sostenuta da investimenti sulla digitalizzazione”, si richiama il famoso “smaltimento dell’arretrato”, riemerge la fissazione del “merito” che ha già procurato gravi danni. Ma soprattutto, quando si richiama il tema della flessibilità, si afferma che dovrà essere indirizzata in tre direzioni: la gestione delle risorse umane, l’organizzazione e la tecnologia.

Mi si consenta, ma si ha la sensazione che la foga di spendere le ingenti risorse non abbia dato il tempo di analizzare il contesto su cui si vuole operare. E il rischio che si corre è quello di trovarci, tra qualche anno, con nuovi debiti da sanare e una pubblica amministrazione, ancora una volta da riformare.

Le emergenze delle pubbliche amministrazioni non riguardano il riconoscimento del “merito”, quanto il rispetto per il lavoro che ogni dipendente presta, sommerso da responsabilità ingenti, all’interno di un sistema paralizzato da adempimenti e vincoli, molti dei quali introdotti proprio dalla stessa riforma Brunetta del 2009 e altri derivanti propri dalla pretesa di “informatizzare dall’alto”, facendolo in modo unitario per tutti, senza avere alcuna cognizione di cosa “automatizzare”. Basti pensare agli adempimenti per i quali, se si sbaglia un codice si perde un finanziamento o si blocca un appalto o si rischia una sanzione, anche a disprezzo dell’interesse pubblico.

Ma la questione più grave che emerge nel documento, in perfetta continuità con la “riforma Brunetta” del 2019 è il convincimento che il problema del miglioramento della Pubblica Amministrazione sia “personale” e non di “sistema”. Si ritiene, quindi, che tutto si può risolvere con l’erogazione di premi ai “migliori” o con nuove assunzioni.

Le assunzioni, indubbiamente, sono urgenti. Le pubbliche amministrazioni, soprattutto quelle periferiche sulle quali gravano vere responsabilità e non solo compiti di “coordinamento”, sono ormai svuotate, richiedendo sacrifici personali ingiustificati. Era ora che qualcuno sbloccasse i vincoli assunzionali. Ma è un grave errore immettere nuovo “capitale umano” in un tessuto disordinato, conflittuale, contradditorio e persino indolente. 

Non si tratta di “organizzazione delle risorse umane”, né di “innovazione informatica”, ma di ridefinizione dei ruoli istituzionali.

Non esistono più processi di lavoro che possano svolgersi in modo lineare, semplice, logico e razionale, nell’interesse dei cittadini. Ogni amministrazione, anche quelle che appartengono al mondo delle “autonomie”, sono costrette a soddisfare vincoli, imposizioni, adempimenti e sospetti, di infinite Istituzioni e Autorità che, senza alcuna responsabilità, interferiscono invocando principi nobili, come la correttezza o la lotta alla corruzione, ma in modo illogico e con gravi danni per il funzionamento del sistema amministrativo.

Se si vuole fare un “patto” che migliori la pubblica amministrazione, davvero, l’accordo non deve limitarsi al Governo e ai sindacati, ma deve essere stretto tra tutte le pubbliche amministrazioni, centrali periferiche, distribuendo in modo equo il principio di responsabilità.

Oggi soltanto chi firma rischia. Non rischia nulla, invece, chi non vuole lavorare, chi non vuole assumersi responsabilità o chi blocca i processi di lavoro altrui. Buon senso vorrebbe che la responsabilità sui risultati venisse equamente distribuita tra tutti, sia tra quelli che “fanno”, sia tra quelli che “impediscono di fare”.