Un noto pasticcere catanese, presso il cui laboratorio, da anni, acquisto i dolci della domenica, esasperato dagli effetti della recessione economica, tempo addietro, mi chiese quali, a mio avviso, fossero i tempi di soluzione dei problemi finanziari del Paese, quando, insomma, si sarebbe potuto realmente parlare seriamente di ripresa, di sviluppo, di occupazione. 

La domanda fu assolutamente pertinente e la risposta non poteva essere né superficiale, né generica, anche se fu particolarmente cauta, per via della volubilità delle opinioni del Governo in materia. 

La crisi si supererà, dissi, quando la burocrazia sarà più leggera e meno autoreferenziale, quando la giustizia sarà più certa, celere e meno teatrale, quando aumenterà il livello di sicurezza, quando i leader politici ed istituzionali saranno eletti dal popolo al quale risponderanno, quando il popolo tornerà ad occuparsi di politica in prima persona. 

Precisai che, se la classe politica fosse stata ancora scelta nei salotti delle case dei vari leader, ovvero attraverso sondaggi pilotati, piuttosto che dalle piazze e dal consenso popolare, dunque avesse continuato a rispondere a ristrette oligarchie, difficilmente si sarebbe potuto continuare a parlare di primato della democrazia, se non mentendo spudoratamente.  

E per noi imprenditori? Mi chiese ancora il pasticcere. Gli imprenditori supereranno la crisi quando avranno al fianco lo Stato, quando impareranno a cooperare tra loro, quando comprenderanno cosa produrre e a chi vendere, quando investiranno i loro utili nelle rispettive aziende e non nell’acquisto della quarta automobile di lusso. 

Il pasticcere, sentendomi parlare, cominciò ad incuriosirsi, dunque, pensai che fosse meglio essere più precisi, soprattutto per evitare di apparire eccessivamente sognatore e poco concreto. 

Meno burocrazia, dissi, vuol dire meno spreco di tempo e di denaro, ma anche più senso di responsabilità; più certezza della giustizia vuol dire maggiore chiarezza nei rapporti tra persone e tra queste e le istituzioni; meno autoreferenzialità della pubblica amministrazione vuol dire meno sprechi e meno costi pubblici, dunque, meno tasse. 

Meno tasse, spiegai ancora, vuol dire maggiori risorse da destinare a nuovi investimenti o a nuovi consumi, dunque, vuol dire maggiore produzione di beni e servizi e maggiore occupazione, ma vuol dire pure più entrate per lo Stato.

Subito dopo aggiunsi che i passaggi ipotizzati avrebbero alleggerito le spese dello Stato e ridotto i carico fiscale sia sulle persone, sia sulle imprese, facilitando gli investimenti. 

Mi affrettai, inoltre, a precisare che senza una forte cooperazione imprenditoriale e senza sapere cosa produrre e a chi vendere la crisi non sarebbe stata superata, sottolinenando che queste due ultime condizioni non si sarebbero potute imporre per legge, ma sarebbero dovute scaturire dalla sensibilità degli imprenditori. 

Chiarii che l’amministrazione pubblica e la politica avrebbero dovuto fare la loro parte ma anche gli altri soggetti in causa dovevano farla perché, spiegai in siciliano: “nessuno ti dice di lavarti per sembrare più bello!”

Il pasticcere, che fino a quel momento mi aveva ascoltato con attenzione, mi fece cenno di aver capito, ma non mi apparve particolarmente contento. 

Perché la vedo così perplesso e incredulo? Gli chiesi, con un pizzico di preoccupazione. 

Perché non siamo maturi, mi rispose: né per la parte pubblica, né per la parte privata. Per quanto riguarda, poi, cosa produrre e a chi vendere, aggiunse, credo che si debbano produrre beni costosi da vendere ai ricchi ma io, concluse, faccio pastarelle, dunque non ho speranze! 

Ma se i ricchi investono, risposi a mia volta, creano lavoro ed i lavoratori comprano le pastarelle. Allora sorrise! 

Ha ragione, mi disse, non ci avevo pensato: infondo, se la situazione migliora, migliora per tutti