Spesso mi capita di conversare con amici, o semplici concittadini, e scoprire che la loro, la nostra, atavica rassegnazione travolge trasversalmente un po’ tutti, al di là della professione esercitata, del titolo di studio conseguito, delle condizioni economiche in cui si versa o delle origini familiari.

C’è un momento in cui in loro, in noi, affiora una senso di impotenza, che appare come insuperabile: una sorta di destino imperscrutabile, nei confronti del quale nessuno sarebbe in grado di reagire. 

Le argomentazioni sono ben note, se si parla di Sicilia: “siamo sempre gli stessi!” Se si parla di economia: “noi faremmo così, ma sono altri che non lo vogliono!” Se si parla di politica: “sono tutti uguali e non cambia mai nulla!” 

Insomma, l’immutabilità delle cose apparirebbe come l’unica certezza di gran parte di noi, che tuttavia trascuriamo un dettaglio: in questo mondo, di statico e di immutabile, per fortuna, non vi è assolutamente nulla, neanche le pietre.

Durante quelle conversazioni, alle quali facevo riferimento, emerge un altro curioso elemento: la stucchevole problematicità di qualsiasi argomento, come se, anche in questo caso, il ruolo di ciascuno di noi fosse di semplice spettatore e non di protagonista. Come se le cose, qualsiasi cosa, possano cambiare senza il nostro piccolo o grande apporto.

In questi casi, essendo incapace di declinare il termine rassegnazione, cerco di reagire come posso e mi vengono in mente alcuni notissimi aforismi. Il primo riguarda proprio la capacità di sbloccare ogni passiva o malinconica incapacità di reazione.

Diceva Aristotele: “quando un problema non ha soluzione non è un problema. Quando un problema ha una soluzione non è un problema.”

L’ovvio corollario del famoso assunto del grande filosofo è un’altra nota massima di origine anonima: “se ti preoccupi per un problema che non ha soluzione il problema sei tu, perché ciò che ti appare come problema, in realtà, è un dato di fatto.”

Il superamento della incapacità di reagire e la voglia di farlo non deve, però, farci perdere di vista il buonsenso, né deve obbligarci all’arruolamento nel gregge dei più forti. Come diceva l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, “anche se mille persone sostengono la stessa cosa non è detto che abbiano ragione, soprattutto se non sanno di cosa stiano parlando.” 

Purtroppo, oggi, di persone che parlano senza alcuna cognizione di causa ne esistono parecchie, alcune governano, dunque sono molto pericolose, per gli effetti delle loro decisioni, che talvolta sono del tutto prive di fondato retroterra. 

Dunque, anche in questo caso, facciamo ricorso all’insegnamento di un filosofo, lo spagnolo José Ortega y Gasset, il quale sosteneva, con un pizzico di sana ironia che: “Se insegni, insegna anche a dubitare di ciò che insegni.”

Ma non basta, dunque bisogna ampliare il concetto, richiamando ancora un filosofo, il grande Immanuel Kant, il quale sosteneva che: “un buon maestro non insegna pensieri, insegna a pensare.” 

Ecco, se invece di convincerci dell’immutabilità degli eventi, magari per mantenerci in una condizione di comodo immobilismo, riuscissimo a fare tesoro degli insegnamenti citati, coniugandoli con una forte dose di pragmatica partecipazione, potremmo uscire dalla condizione di immobilismo nella quale ci troviamo e dalla quale è indispensabile venire fuori rapidamente.

Se non dovessimo riuscirci, se pensassimo veramente che debbano essere altri a risolvere le nostre questioni, se fossimo realmente convinti che debba essere il Nord a risolvere le criticità del Sud, sarebbe tutto perduto, perché nessuno farà ciò che solo noi dobbiamo fare. 

Non mi pare, però, che su questo versante si sia già perduta ogni speranza, penso, invece, che tardino ad arrivare le alternative credibili.

Certo, non è facile avere fiducia ma, in questo caso, la sfiducia è molto peggio. L’atteggiamento migliore sarebbe quello di una costante e partecipata verifica, che ci liberi dalle intermediazioni interessate di un’informazione prigioniera dei suoi inserzionisti e dei loro interessi o dalla propaganda di governo.

La Sicilia e la sua classe dirigente non possono perdere né la loro storia, né la loro essenza, né la speranza, ma devono ripartire da una profonda autocritica, da una franca e dolorosa ammissione di colpa e da un progetto essenziale fondato su tre semplicissimi concetti: la propria responsabilità, le proprie risorse e la dovuta perequazione infrastrutturale con il resto del Paese. 

Una nuova visione della nostra condizione sociale ed economica, certo, non può trascurare il passato, a condizione che non venga usato come alibi per il succube immobilismo, ma dobbiamo essere consapevoli che ormai è immutabile, mentre il presente deve essere proficuamente utilizzato per costruire un futuro sereno, capace di offrirci prospettive concretamente migliori.