Ho svolto per oltre sette anni le funzioni di Garante dei diritti dei detenuti della Regione Siciliana e per quasi tre anni quelle di coordinatore nazionale dei Garanti regionali. 

Dietro le sbarre ho incontrato centinaia di reclusi: colpevoli ed innocenti, assassini e ladri, corrotti e truffatori, stupratori e pedofili, mafiosi e “antimafiosi”, spacciatori e drogati, prostitute e protettori, terroristi e tutori dell’ordine, politici ed elettori. 

Nella mia difficile e complessa attività mi ha sempre guidato una regola, che ho applicato in ogni circostanza e per ogni persona, sia quelle con la divisa blu, sia quelle con la casacca a strisce o color cappuccino. 

Non mi ha mai interessato né il reato, né il reo, mi sono occupato sempre e soltanto dei diritti che la legge riconosce alle persone carcerate e delle prerogative che, sempre la legge, attribuisce ai carcerieri. Insomma, mi sono occupato del rispetto delle vittime, ma anche del rispetto di chi ha trasgredito la legge e di chi ha il compito di sorvegliare.

In tanti anni ho maturato una convinzione: quando lo Stato viola la legge che si è dato diventa, suo malgrado, il miglior alibi ed il miglior complice per i delinquenti, perché si comporta esattamente come loro.

Lo Stato non è forte quando vince trasgredisce le proprie regole, ma quando vince rispettandole, anche verso se stesso, anzi, è più forte soprattutto quando vince contro se stesso. 

Perché, cari amici che mi leggete, dobbiamo essere consapevoli di una drammatica e scomoda verità: spesso “gli altri siamo noi”, lo Stato è rappresentato da uomini e gli uomini sono fallibili, qualunque sia la loro funzione. 

Sarebbe opportuno che, per capire questa elementare considerazione, non fosse necessario che un familiare o un amico finisse in carcere, perché potrebbe essere troppo tardi.